Brand Activism: un nuovo approccio per promuovere il cambiamento sociale

21 Giugno 2024 - Suitex

L’espressione brand activism è stata coniata da due pionieri del marketing, Philip Kotler e Christian Sarkar, nel loro celebre manuale Brand activism: dal purpose all’azione (2019).

Kotler e Sarkar definiscono il brand activism come «la volontà chiaramente esplicitata di partecipare a cause di ambito sociale, oltre che di assumersi precise responsabilità in merito al raggiungimento di quello che viene considerato bene comune».

Oggi ci troviamo in un contesto che esercita una grossa pressione sulle aziende dal punto di vista della trasparenza, che risulta essere uno snodo cruciale da cui partire. Da quasi 20 anni si parla di trasparenza ma gli impatti si vedono più che mai oggi. Le attività organizzate dalle imprese devono essere accountable, devono rendere visibili e trasparenti i risultati che perseguono e conseguono.

La pressione alla trasparenza si è istituzionalizzata ed è divenuta un obbligo per le imprese a causa del contesto mediale, che ha cambiato le modalità con cui ogni singolo individuo accede, produce e vaglia le informazioni.

Questo tipo di pressione avviene in un contesto di business totalmente paradossale, poiché in tale contesto, che si fa promotore di trasparenza, in realtà viviamo costantemente divisionismi, bipolarismi e siamo sottoposti ad un forte tasso di disinformazione e fake news, ingredienti assolutamente contrastivi della trasparenza.

Altro snodo cruciale è il bipolarismo di massa: questo tipo di divisionismo è il contesto in cui alla comunicazione e alle aziende si chiede di fare trasparenza. Entrare in un contesto bipolare ed estremamente complesso significa prendere posizione da un lato o dall’altro della barricata con il rischio di esporsi al giudizio e alla critica.

Questo contesto ha spinto fortemente le marche verso l’attivismo, alle volte come impegno autentico, altre come opportunità da sfruttare; inoltre ha dato alle imprese l’opportunità di fornire alle persone risposte che le istituzioni tradizionali non offrono più.

Per fare ciò i brand hanno iniziato ad introdursi nei flussi conversazionali delle persone prendendo una chiara posizione riguardo tematiche particolarmente sentite.

Questo paradigma si costruisce attraverso delle forti dimensioni di ascolto: nel vecchio paradigma comunicativo si partiva dall’azienda, da quello che faceva e trasmetteva sui mercati, mentre nel paradigma conversazionale si parte dal tessuto sociale, l’azienda vede cosa oggi è rilevante e cerca di intuire in che modo può inserirsi in quel contesto.

Quando parliamo di attivismo di marca è doveroso distinguere l’attivismo regressivo da quello progressivo:

  • L’attivismo progressista riguarda brand considerati leader nel loro settore di riferimento, che dimostrano una certa impavidità nell’affrontare tematiche divisorie, mettendo quasi in secondo piano l’interesse economico aziendale;
  • L’attivismo regressivo riguarda brand che non abbracciano alcuna tematica di carattere sociale, economico o politico.

Patagonia rappresenta un esempio calzante di brand attivista progressista, in quanto è globalmente noto per la sua filosofia imprenditoriale che nasce, cresce e si sviluppa intorno alla declinazione del “no waste” in tutte le sue sfaccettature.

Il brand è sempre stato famoso per il suo incessante impegno riguardo la lotta all’iperconsumo, navigando spesso controcorrente e andando persino contro le classiche dinamiche delle imprese for profit.

Emblematico è, a tal proposito, l’annuncio provocatorio “don’t buy this jacket” diffuso sul New York Times in occasione del Black Friday nel 2011. Nell’annuncio l’azienda sconsigliava l’acquisto della famosissima R2 Jacket, una delle giacche simbolo di Patagonia. Il manifesto era accompagnato da una serie di informazioni riguardo il processo produttivo della giacca finalizzate a sottolineare come, nonostante fosse prodotta con materiali riciclati, ciò non escludeva l’elevato impatto che a prescindere la giacca aveva sull’ambiente.

Nonostante in molti pensarono che questo annuncio sarebbe stato contro producente per l’azienda, il successo invece fu clamoroso, soprattutto in virtù della contraddizione che lanciava. Dopo un anno, la conseguenza di questo gesto fu l’incremento delle vendite del 30% con un fatturato superiore a 540 milioni di euro.

Oggi l’azienda è riconosciuta soprattutto per le iniziative green ed è riuscita a raggiungere un saldo posizionamento nelle menti dei suoi clienti riguardo la tematica della sostenibilità.

Fonte IMG: patagonia.com

 

Oggi ai brand viene richiesto un impegno sociale, poiché è innegabile che le storie e l’immaginario, che vengono associati ai prodotti di cui i consumatori fanno uso nel quotidiano, contribuiscano a caratterizzare il contesto socioculturale.

Esistono numerosi esempi di brand che, negli anni, si sono schierati su tematiche “scivolose” al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica e provare a sradicare alcuni preconcetti.

Pensiamo ad esempio a brand come Dove che ha lavorato e lavora tutt’ora attivamente intorno al tema della bellezza autentica: nel 2004 Dove ha voluto concretizzare il suo brand activism verso le donne con una campagna a favore della bellezza autentica, ossia quella naturale. Lo ha fatto attraverso uno spot in cui rivelava che dietro un’immagine apparentemente perfetta di una donna in copertina, si celavano ore di trucco e una buona dose di photoshop, andando così a sdoganare l’idea di bellezza priva di difetti.

Nel corso di questi anni Dove ha continuato questa sua battaglia e nel 2013 ha divulgato un cortometraggio – Real Beauty Sketches – particolarmente significativo che ha avuto un successo clamoroso, raggiungendo quasi 180 milioni di visualizzazioni.

Si trattava di un esperimento sociale in cui è stato chiesto ad alcune donne di descrivere il proprio aspetto al ritrattista forense dell’FBI Gil Zamora, il quale, da dietro ad una tenda, ha eseguito i ritratti sulla base delle descrizioni fornite. Subito dopo la stessa donna è stata descritta a Gil da una persona estranea, per confrontare le due descrizioni. Gli esiti di tale esperimento sono stati due ritratti completamente diversi: il soggetto del ritratto descritto dalla persona estranea appariva più bello, felice e armonioso rispetto a quello effettuato sulla base dell’auto descrizione della persona ritratta. L’esperimento ha dimostrato che chiunque si percepisce più brutto di quanto non lo sia, da qui lo slogan lanciato da Dove: sei più bella di quello che pensi.

FONTE IMG: riccardopirrone.com

 

Dove ha anche lavorato a fianco della Word Organization of Girl Guides and Girl Scouts attraverso il programma “Free Being Me”: si tratta di un progetto mirato al concetto di inclusione e alla battaglia contro il body shaming, un fenomeno che con l’avvento dei social ha avuto una crescita allarmante.

Un altro caso è rappresentato dal brand VeraLab fondato nel 2016 da Cristina Fogazzi, alias l’Estetista Cinica. Nel 2009 Cristina ha fondato a Milano il suo centro estetico BellaVera, da cui poi è nato il nome del suo brand VeraLab. Il suo lavoro le ha permesso di essere a contatto diretto e costante con il mondo femminile, ciò l’ha resa consapevole riguardo i disagi legati agli inestetismi della fisicità che quasi ogni donna vive. È quindi in risposta a queste esigenze che la Fogazzi ha avuto l’idea di creare una propria linea di prodotti per il corpo e per la skincare, che l’hanno poi portata a fondare il suo brand.

FONTE IMG: veralab.it

 

VeraLab incarna i valori legati alla body positivity, ossia un movimento sociale che si propone di promuovere l’accettazione e l’amore per il proprio corpo, qualunque esso sia. Infatti, più volte la Fogazzi ha dichiarato che la sua azienda prende le distanze dagli stereotipi tradizionali a favore di una bellezza più inclusiva e autentica, e promuove la diversità come una caratteristica distintiva di ciascuno di noi.

Dagli esempi citati, si può maturare l’importanza di analizzare i mercati conversazionali per comprendere effettivamente quali siano le cause che un brand possa sposare efficacemente.

Ad ogni modo, in una società polarizzata come quella contemporanea, non è possibile catturare il consenso unanime: ci saranno sempre degli oppositori. Ciò, però, non è di per sé un problema, poiché attraverso le discussioni i brand entrano ugualmente nelle conversazioni e, una volta dentro, hanno la possibilità di lavorare per provare a diventare delle voci primarie rispetto a quel dato argomento.

Back to all news blog