Il GREENWASHING HA ORIGINI ANTICHE

24 May 2022 - Suitex

Il Greenwashing è una tecnica di marketing che ha lo scopo di valorizzare la brand reputation ponendo il focus su precisi richiami all’ambiente, non supportata però da reali azioni messe in atto all’interno dei processi produttivi o nella vita quotidiana della corporate e che talvolta viene utilizzata per nascondere o mettere a tacere voci su alcune pratiche aziendali negative.

Questa pratica distorta ha origini non recenti. Il primo a citarlo fu Jay Westerveld, ambientalista di origini statunitensi, che lo utilizzò nel 1986 per denunciare l’uso di alcune catene alberghiere che facevano leva sull’importanza dell’impatto ambientale per invitare i clienti a ridurre il consumo di asciugamani, nascondendo in realtà una motivazione economica. Ma poco dopo negli anni ’90 anche le grandi aziende petrolifere e dell’automotive cominciarono ad utilizzare il concetto di eco-friendly per distogliere l’attenzione del grande pubblico e dei media dall’inquinamento che stavano causando.

Oggi però il fenomeno ha raggiunto livelli esponenziali e toccato tutte le industries, per varie ragioni.

Entro il 2030 gli Stati membri dell’ONU hanno sottoscritto l’impegno a completare 17 obiettivi detti Sustainaible Development Goals, tra cui troviamo “l’acqua pulita e i servizi igienico sanitari” (punto 6), “energia pulita e accessibile” (punto 7), “città e comunità sostenibili” (punto 11), “consumo e produzione responsabili” (punto 12), “lotta contro il cambiamento climatico” (punto 13). Intorno a questi temi negli ultimi anni si sono espressi schiere di politici ma anche di media, attori e digital influencer. Le aziende non si sono potute quindi esimere dal comunicare se e come stessero contribuendo alla realizzazione di un mondo più pulito e sano; alcune hanno fatto seguire i fatti, altre si sono limitate alle dichiarazioni.

Ci sono però vari rischi che le aziende dovrebbero prendere in considerazione prima di attuare determinate pratiche, ma limitiamoci a parlare del principale, ossia la fiducia. Il consumatore si acquisisce in tempi lunghissimi ma lo si perde molto più velocemente; successivamente, ricostruire immagine e brand reputation è difficile e rischia di ledere per sempre il valore della company e portarla al fallimento.

Per evitare le trappole del greenwashing l’Europa sta lavorando alla redazione di una normativa apposita che punti a definire in modo puntuale il concetto di “green”. Lo strumento a nostra disposizione è la Tassonomia UE, adottata dal Parlamento nel 2020.

Le aziende saranno tenute a dare il proprio resoconto delle attività sostenibili e dei reali risultati raggiunti attraverso la dichiarazione non finanziaria delle imprese come ribadito con la direttiva EU NFDR (Non Finance Reporting Directive), mentre i fondi comuni di investimento dovranno precisare il grado di allineamento dei propri asset alla Tassonomia, come stabilito dalla SFDR (Sustainable Finance Disclosure Regulation). Ci sono poi certificazioni ambientali, come gli standard EMAS e ISO 140001, ma anche il GRS, ovvero Global Recycled Standard.

Molte aziende giocano però la carta dell’internazionalizzazione e nel mondo della pubblicità e della corporate social responsibility tutto è dato da forme di autoregolamentazione come quelle della Federal Trade Commission (FTC) americana che è stata la prima a stilare, negli anni Dieci del Duemila, delle linee guida per l’utilizzo di environmental marketing claims che impongono alle aziende chiarezza e trasparenza non solo nel definire entità e portata del proprio impegno ma anche, per esempio, nelle scelte linguistiche.

Infatti, il greenwashing si può manifestare anche tramite l’utilizzo di un linguaggio vago e generico oppure talmente tanto tecnico da risultare parimenti incomprensibile, così come utilizzando immagini suggestive che richiamino i toni del verde o nelle quali vi siano soggetti naturali, che evochino quindi un qual certo commitment aziendale verso le questioni ambientali.

Vogliamo chiudere tuttavia con un elenco di business case positivi, che possano essere d’esempio per tutte quelle aziende e i loro manager che volessero lavorare concretamente sulla sostenibilità.

Nel 2021  l’Integrated Governance Index (IGI) ha calcolato quali fossero le aziende più green in Italia. Nella top ten citiamo Poste Italiane, che si è distinta per l’impegno relativo alla decarbonizzazione di immobili e logistica e la finanza sostenibile, adottando azioni strategiche e approccio ecosostenibili e Generali, che occupa una posizione di spicco nella classifica delle imprese green in Italia perché si è impegnata non solo a cambiare modo di fare business, ma anche a dare il proprio sostegno alle comunità in termini di benessere, inclusione e valorizzazione culturale.

Passando al Fashion, il gruppo Kering si è dato l’obiettivo di ridurre del 40% le emissioni di gas serra entro il 2025 e per questo, dal 2013, ha dato vita ad un laboratorio nel quale lavora alla sperimentazione di più di 3000 tessuti innovativi. Il gruppo LVMH si sta concentrando invece sul packaging, riducendone al 60% le misure. Max Mara ha brevettato una fibra ricavata dagli scarti della lavorazione del cammello, solitamente impiegato per gli iconici cappotti, uniti a del poliestere riciclato in una fibra dalle qualità altamente isolanti utilizzata per una nuova particolare forma di imbottitura.

Tra le aziende dello sport, gli esempi positivi di aziende sostenibili sono fortunatamente moltissimi. Interessante la prospettiva di Patagonia, che ci permette di dare un cappello conclusivo al nostro racconto, che nel suo sito internet, alla sezione “obiettivi climatici” enuncia “trasformare il modo in cui facciamo business è un elemento cruciale, ma la crisi climatica richiede molto di più. Sosterremo gli sforzi della comunità volti a eliminare i combustibili fossili e proteggere la natura. Useremo tutto il potere e l’influenza che abbiamo per far fronte al cambiamento climatico cambiando il sistema”.

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